Giorgio Caproni: Storia di una periferia

Concita De Gregorio: Fabrizio Gifuni ha preparato una cosa insolita, due letture da Pier Paolo Pasolini e Giorgio Caproni. Inizio di un'inchiesta sulle borgate di Roma commissionata a Giorgio Caproni da Elio Vittorini.

"Ormai, quando si dice Roma, gli italiani delle altre città di solito storcono la bocca schifati. Ormai, dopo il fascismo, Roma è diventata sinonimo di burocrazia corrotta, di parassitismo, di capitalismo della borsa nera e della prostituzione. Ma Roma non è solo questo. Anzi, ben poco di questo per cui gli italiani delle altre città giustamente si vergognano di Roma e servano a Roma ancora, ben poco di questo, che è in Roma, è romano. È invece, in gran parte, venuto a Roma da tutte le città e regioni d’Italia: è il parassitismo e la corruzione di tutta l’Italia che affluiscono a Roma da quando essa fu capitale di uno Stato accentrato e retrogrado, e che a Roma stabilirono il loro quartier generale. La Roma vera, la Roma lavoratrice, è rimasta schiacciata sotto il cemento armato e l’asfalto con cui i burocrati e gli affaristi immigrati edificarono e poco a poco e pavimentarono il loro paradiso, sempre più megalomane e paradossale, fino alle vie imperiali mussoliniane. O addirittura venne cacciata la Roma vera, espulsa dalla città, mandata in esilio oltre l’estrema periferia, confinata in «borgate». Appunto dalle «borgate» bisogna partire per cominciare a riavvicinarsi a Roma, per ritrovare anche in Roma, sotto il cemento armato e l’asfalto della borghesia, il terreno fertile e intatto dal quale possa rinascere l’Italia.


Rettangoli come case

«Mussolini voleva spazio e luce intorno a sé, preferiva ci fosse un bel prato o un’ampia spianata prospettica dove prima c’erano case addossate e vicoli; e il piccone fu da fatto manovrare senza risparmio d’energie e di spese affinché il suo sguardo potesse spaziare e col suo quello dei suoi poliziotti. Per i quali poliziotti, è naturale, era più facile sorvegliare un giardinetto o una spianata prospettica che un dedalo di viuzze dove s’agita il popolo. Questo benedetto popolo sempre inquieto – questo popolo anche un poco sporco e rissoso e certo indecoroso nella risorta aura imperiale di Roma. E a questo popolo il duce picconò le case, il duce lo sfrattò, questo popolo, lo volle mettere fuori della porta, anzi, fuori dalle porte cittadine: lo acquartierò nelle borgate e nacquero così le borgate; e ora ecco che delizia è viverci.»

Questa, nel discorso appassionato e sbrigativo di uno che fu costretto a viverci, l’origine delle «borgate romane». Discorso che contiene, sì, uno dei noccioli della verità: senonché tale verità non ha un nocciolo solo, ve ne sono anzi altri ben più nascosti e profondi; e sono proprio quelli che noi vogliamo cavar dalla polpa.

Ma prima di tutto, per chi non lo sapesse, che cosa sono le borgate romane? Ai margini di Roma, oltre gli estremi margini di Roma, isole derelitte nel magro agro dell’Agro, queste sono le borgate. Malinconici agglomerati di piccole abitazioni per lo più di uno o due piani che, nella loro geometrica disposizione e nella «standardizzazione» del tipo architettonico (il «novecento» più squallidamente economico), hanno tutta l’aria di moderni lazzaretti. Potrebbe un bambino di IV elementare disegnare la pianta di ciascuna di queste borgate: ogni fabbricato un rettangolo diviso in due o tre quadrati: ogni quadrato è un vano, e spesso ogni vano è un’abitazione. E su ciascuna di tali piantine topografiche, tutte contornate dal verde dell’agro, un nome: Tor Marancio, Pietralata, Tiburtino III, Gordiani, Quarticciolo, Primavalle, Ponte Mollo, Borgo del Trullo, ecc.., tutti nomi alla rinfusa che evocano la medesima geometria ossessiva di piccoli fabbricati rettangolari a pareti assolutamente lisce e giallastre, sperduti nel rigore dell’agro romano, senza un appiglio per gli occhi e tanto meno per il cuore di chi vi abita.


Le pareti inventate

Per andare dal centro della città in una di queste borgate bisogna rendere il più delle volte due tram. Ma scesi dal tram si è appena all’inizio del transito necessario: è sempre all’ultimo capolinea dell’ultimo tram che bisogna scendere, e lì nel sole o sotto l’acqua bisogna aspettare almeno venti minuti perché parta la «camionetta». La quale, carica sempre di minuto popolo, di manovali, di operai e di qualche sperduto, piccolissimo borghese (i residenti delle borgate lavorano, se non sono disoccupati, in città), nonché di poveracci, e di «pezzenti» dall’imprecisabile e forse innominabile mestiere, giunge attraverso le vie maestre dell’agro a uno di questi gruppi di case. Case? Ma con quale cuore di possono chiamare case questi asili di fortuna, questi geometrici frutti dell’usura più spietata? Luoghi ove non esiste cemento tra le pareti e gli uomini, ecco cosa sono le borgate romane. Luoghi inventati, non nati dalla naturale storia degli uomini. E mi domando come nei miti giorni di sole, possano le donne e i bambini uscir fuori dalle loro stanze senza sentirsi del tutto staccati dalle pareti domestiche, da quello che dovrebbe essere il guscio della loro storia. Un guscio così sottile da non poter difendere ne dal feroce bollore dell’agro in estate, ne dal suo rigore acuto nell’inverno, e ormai tanto trasandato da far persino acqua nei giorni di pioggia; l’acqua che manca ai servizi domestici come mancano o cono occluse, se non mancano, le fognature, come manca spesso un tetto al lavatoio comune. Chi ora vive in questi luoghi è gente scaraventata nel deserto, e anche il loro cuore come può non essersi fatto deserto?


I diseredati in esilio

In Roma è antica quanto la sua storia la spinta degli agiati contro i poveri. Tutta la storia intima di Roma è la storia della spinta centrifuga di chi sta meglio contro chi sta peggio, spinta iniziatasi quando gli agiati sostituirono il marmo e la monumentalità alla «casae» di origine. Si dimenticò subito che Roma era stato un asilo di diseredati e subito si iniziò la spinta centrifuga contro i diseredati. Si iniziò da quando fu ordinata la demolizione delle «insulae» (casamenti di quattro, cinque, e spesso perfino dieci piani) per dar luogo alla costruzione di nuovi fori e di nuove basiliche nella prima età imperiale, sempre informando ogni piano regolatore (da quello di Giulio Cesare a quello di Sisto V e a quello del loro piccolo epigono Mussolini) più  a una mania di monumentalità che a un sano concetto di igiene. E i metodi dei vari cesari contro la povera gente furono sempre gli stessi: lo sfratto e la segregazione oltre le mura. Uno sfratto quanto mai persuasivo perché sempre accompagnato dal piccone demolitore e, se è vera la leggenda, addirittura dal fuoco, come nel caso di Nerone, il quale esclusivamente per una ragione igienica ed estetica avrebbe dato alle fiamme la parte plebea della città. E nelle età moderne, subentrata la borghesia nell’aristocrazia, tale spinta centrifuga contro la plebe fu continuata con assiduo rigore, in modo che la storia di Roma può ben riassumersi tutta entro le sue mura, in questo: nella lotta della borghesia immigrata contro la plebe originaria e il proletariato: elementi prettamente indigeni della città che per sua natura, e a dispetto di tutto e di tutti, plebea pur nel suo splendore.

In verità, fin dal secolo scorso, le classi dirigenti, e per esse la borghesia, avevano buon gioco per proporre un nuovo assetto urbanistico in cui le classi povere avessero una nuova sistemazione. Le classi dirigenti puntavano su queste ottime ragioni sociali ed estetiche: la plebe romana abitava in tuguri assolutamente insalubri e antiestetici – occorreva dare al popolo di Roma una casa sana e decente e sgombrare magari col piccone le zone infette. Non era affatto un impulso sbagliato, c’era anzi nel fine palese una vera magnanimità. Ma nel fine segreto? Nel fine segreto c’era già fin da allora il veleno della borghesia benestante contro il proletariato che si voleva estromettere in ogni modo dalla ministeriale città. I baraccamenti di Porta Metronia fin dal 1911 accusano questa intenzione, potenziata naturalmente dal fascismo, massimo ed estremo esponente della borghesia.


Per «disinfettare» la città

Colpa ed errore è stato di allontanare «in massa» il popolo dalla città ove aveva il suo lavoro e i suoi traffici e di relegarlo «in massa» in baraccamenti standardizzati, creando delle vere e proprie colonie di misera gente. Gli individui più miseri e spesso, in conseguenza della loro disperata miseria, più tarati socialmente e biologicamente, stretti a congresso e ammassati fuori della città (nella città in un certo modo vivevano in separate persone, e comunque in vicinanza e magari in emulazione della parte sana), quale vantaggio possono avere avuto trasferiti in massa fuori della città, in isole geometriche nell’agro, tagliati fuori ormai dal consorzio? Ma ciò che alla borghesia premeva era solo che il popolo ammassato laggiù avesse il minor numero possibile di contatti con la città. E per perfezionare l’isolamento di questi umili, la borghesia fascista creò un altro tipo di borgata: le cosiddette borgate rurali, come quella di Settecamini e di Borgo Acilia. Si tentò a questo modo di legare alla terra uomini che mai avevano avuto contatti con terra, illudendosi di poter «inventare» in loro dei contadini. E cosa avvenne? Coloro che non amavano né potevano all’istante imparare ad amare la terra affittarono ad agricoli veri il loro appezzamento o lo abbandonarono per ripetere identica la situazione in cui si trovavano le altre borgate. Isole di disperati, dove l’uomo diventa «pezzente», e che se ne vanno disamorate alla deriva."

Concita De Gregorio: Sul tema delle borgate è interessante dire che questa strada, questo luogo è stato costruito spianando la collina che c'era prima e gli abitanti di questa collina, sono poi effettivamente i figli delle borgate.


Fabrizio Gifuni: Esattamente dove siete voi, c'erano case, strade, viuzze, che sono state con un gesto di imperio rimosse. E una popolazione che viveva e che aveva sempre vissuto nel cuore del centro storico di Roma, si ritrò improvvisamente in un tempo relativamente breve, a vivere oltre la periferia di Roma. Sono nate abbattendo via dell'Impero e via della Conciliazione, negli anni 30, sono nate le 18 borgate ufficiali romane: Corviale il Trullo, Tiburtino Terzo. Questa è una cosa di cui sarebbe utile conservare la memoria. Il fatto che questa strada possa essere restituita alla città, mi sembra uno sguardo alto. È giusto sottolineare che chi oggi vive nelle borgate è discendente di cittadini romani che vivevano qui. La divisione urbanistica non rende bene giustizia a quello che è avvenuto nella storia immediatamente percepibile.