Camminando verso il centro, immettendosi in Via Cola di Rienzo, oltrepassando il fiume Tevere e superando Villa Borghese, si giunge in Via Veneto, famosa via della "Roma bene", quella Roma che contava e che tutto il mondo ci invidiava, la via della Dolce Vita che negli anni Sessanta fu meta di pellegrinaggio di artisti, cantanti, modelle e attrici, di vip ma anche di politici fanatici, corrotti e mafiosi. C’era la droga, il male affare e la prostituzione; in sostanza, tutti gli ingredienti ideali per un giallo degno di nota.
Christa Wanninger era “una delle tante” arrivate in via Veneto per inseguire il mito della “Dolce Vita” e il sogno di trovare un marito italiano con cui mettere su famiglia.
Ben presto si palesò la realtà per quella che era, nuda e cruda, e dopo l’inutile tentativo di trovare la felicità, finì per dormire dietro il paravento della stanza di passaggio d’una pensioncina. Una situazione che detestava al punto che quel giorno, il 2 maggio 1963, decise di andare a far visita ad una sua amica nella speranza di riuscire a trovare una sistemazione migliore.
Durante la sua breve vita Christa aveva tentato, senza alcun risultato, di allontanare la mala sorte che la da sempre la perseguitava e fu proprio questa ad accompagnarla al patibolo. Giunta in Via Emilia n. 81, a due passi di Via Veneto, la modella e aspirante attrice tedesca, allora ventiduenne, salì in ascensore per andare all’appartamento posto al quarto piano del palazzo, dove ad attenderla c'era la sua amica, coetanea e connazionale Gerda Hodapp. Giunta sul pianerottolo, Christa venne colpita da ben undici coltellate e ferita a morte… crollerà senza riuscire nemmeno a bussare o suonare al campanello dell'amica.
Alcuni testimoni riferirono di aver visto scendere dalle scale del palazzo un uomo vestito in blu, all’epoca dei fatti un colore inusuale per un abito da tutti i giorni. La persona, apparentemente calma, riferì loro di aver udito una ragazza urlare al pianerottolo superiore e poi sparì.
Le indagini durarono quasi 25 anni.
Al principio fu indagato il fidanzato della vittima, un ex calciatore squattrinato che però aveva fornito agli inquirenti un alibi di ferro. Vennero quindi scartate le ipotesi di un delitto per gelosia e, successivamente, per rapina, difatti alla Wanninger non fu portato via nulla.
La polizia per diversi mesi brancolò nel buio più totale e gli inquirenti iniziarono a perdere l’interesse per quel caso e, così, le luci della ribalta si spensero per accendersi altrove, sui tumulti di Piazza Venezia e sulla tragedia del Vajont .
Nel marzo del 1964 una telefonata inaspettata riaccese i riflettori sulla vicenda. Un uomo contattò il quotidiano romano "Momento Sera" rivelando di essere il fratello del misterioso “uomo in blu” e, mentre il giornalista Maurizio Mengoni lo intratteneva abilmente al telefono, l’uomo venne sorpreso in una cabina telefonica situata a piazza san Silvestro e tratto agli arresti.
La persona in questione si chiamava Guido Pierri, un ambiguo pittore di 32 anni. In tasca gli rinvennero un coltello, simile a quello che uccise Christa Wanninger, da qui la perquisizione in casa dove ritrovarono un abito blu e quattro quaderni in cui il Pierri illustrava, con dei disegni e degli scritti, alcuni omicidi tra cui quello della Wanninger.
Non è tutto: Guido Pierri il giorno dell'omicidio risultava privo di alibi. L'artista si difese affermando che le cose scritte nei diari erano il frutto di pura fantasia, lui con la morte della Wanninger non c'entrava nulla; trovandosi in difficoltà economiche, con quella telefonata intendeva solo fare un po' di soldi approfittando della notorietà del caso. All’epoca dei fatti l’esame del DNA repertabile nel coltello era pura fantasia e in mancanza di prove certe, Pierri venne scagionato.
Il caso divenne sempre più fitto di intrighi e misteri al punto che un ufficiale dei carabinieri decise di congedarsi per seguire privatamente le indagini in qualità di investigatore privato, ma quando rivelò alla stampa di avere notizie importanti sul caso, venne travolto ed ucciso da un'autovettura che si diede alla fuga.
Nel 1973, la magistratura italiana decise di riesaminare il caso Wanninger e alla luce dei fatti compresero che il pittore Guido Pierri, non avendo un alibi ed essendo l’unico indiziato dell’assassino della povera modella, doveva essere nuovamente tratto agli arresti e processato.
Fu un nulla di fatto, i quaderni con i disegni di allora furono distrutti dall’indagato e molti testimoni dei fatti erano deceduti o irreperibili. Ai giudici del "Palazzaccio" di Piazzale Clodio non restò altro da fare che scarcerare il pittore per insufficienza di prove.
Il caso era ormai caduto nell’oblio quando, nel 1985, il Pierri venne nuovamente sottoposto a giudizio e questa volta riconosciuto autore e colpevole dell’omicidio a lui imputato.
La storia del caso Wanniger si concluderà definitivamente con una beffa, Guido Pierri non andrà mai in carcere perché ritenuto all’epoca dei fatti incapace di intendere e di volere e quindi non imputabile, né tanto meno in un ospedale psichiatrico giudiziario perché ritenuto ormai sano di mente e non socialmente pericoloso.
Come in ogni cammino è essenziale una tappa gastronomica, anche per levarsi in questo caso “l’amaro di bocca”, quindi procedendo per Via Veneto e costeggiando l’ambasciata americana, si prosegue in Via Leonida Bissolati, per raggiungere Via Vittorio Emanuele Orlando dove vi consiglio di fare una meritata sosta presso il bar gastronomia e pasticceria siciliana Dagnino, ubicato all’interno della Galleria Esedra, la stessa dove è situato anche l’ufficio della mia agenzia investigativa a Roma. E perché no? Provate a suonare e, se sarò in sede, sarà un piacere offrirvi il caffè ed approfondire con altre curiosità gli argomenti trattati.